Una colonna di fumo si leva sul fianco della montagna del Monte Petrino di Mondragone. È l’incendio. Poco dopo guizzano le prime lingue di fuoco, si allacciano, si espandono, divampano formando infine una lunga linea rossa che sale e divora il pendio. Il bosco brucia, il bosco muore.
Da lontano l’immagine ferisce gli occhi e il cuore; se avessimo vicino ai piedi un metro quadro di fuoco ne avremmo timore; un ettaro sono 10 mila metri quadrati; in Italia, ogni anno, vanno a fuoco più di 40.000 ettari, una catastrofe immensa. Calamità o follia? Le indagini del Corpo forestale dello Stato ci dicono che solo per il 5 per cento degli incendi vi sono cause dubbie; per il resto sono dovuti a colpa (35 per cento) e soprattutto a dolo (60 per cento): inneschi multipli e simultanei, segni di un rogo appiccato e attizzato, prove di un delitto assolutamente intenzionale.
Un delitto, sì; il bosco che brucia è un delitto contro la vita.
È vita quella che scorre nelle linfe degli alberi sulla montagna, dei cespugli che infoltiscono la macchia mediterranea, degli arbusti e dell’erba e dei fiori; è vita quella degli animali – uccelli, rettili, mammiferi – che popolano il bosco e sono sterminati; è vita anche l’ossigeno che dava respiro a noi e ora è distrutto alla sua stessa fonte, lasciandoci in un deserto di cenere.
Dopo la siccità, verranno le piogge d’autunno; le acque sul monte bruciato non troveranno più la vegetazione, diverranno dilavanti e selvagge, porteranno via lo strato dell’humus, prepareranno frane e smottamenti. A scongiurare nuovi disastri sarà necessario il rimboschimento, ma ci vorranno decine di anni perché l’ambiente ritorni come prima; e invece il fuoco è pronto a ripassare a ogni estate, come in un appuntamento dannato.
Non è un problema che toglie il sonno solo ai guardiani del fuoco, ai piloti dei Canadair, alla Protezione civile, ai governanti centrali e locali.
Il problema che ci riguarda tutti, se tutti siamo ospiti umani di una terra viva e generosa che la nostra insipienza si accanisce a far morire. Il peccato basilare è il disamore per la natura, che si aggrava nella incivile “civiltà del saccheggio” e dell’inquinamento, e culmina nella sua devastazione col miraggio di temporanei profitti. È profitto colare cemento per costruzioni nelle aree bruciate? O fare pascolo dov’era bosco? Eppure sentiamo dire che ci sono piromani prezzolati, e che oscure cupidigie economiche manovrano i roghi dolosi.
Undici anni fa, la legge quadro numero 353, sanciva fino a 10 anni di carcere per gli incendiari, bloccava per 15 anni la destinazione preesistente delle aree bruciate, e vietava per 10 anni di costruirvi sopra, vietava il pascolo per 10 anni e persino niente rimboschimento con denaro pubblico, per cinque anni. Una strategia dissuasiva che, purtroppo, non ha funzionato come si sperava per i mancati controlli da parte delle istituzioni.
Un’altra strategia parallela ha coinvolto le Regioni, per programmare piani di prevenzione e lotta attiva contro gli incendi, gli Enti delegati (Province e Comunità Montane) per l’attuazione di Piani di Riforestazione annuali e i Comuni, per mappare le aree percorse dal fuoco, il famoso catasto incendi rimasto, per molti Enti, solo sulla carta .
Le linee guida sono già state messe a punto; sul piano pratico resta da fare moltissimo, ma rimboccarsi le maniche prima giova di più che disperarsi a spegnere dopo, si potrebbe dire che prevenire è meglio che curare.
E se un giorno penetrerà nella nostra coscienza di uomini il fuoco positivo dell’amore alla natura, alla terra che ci accoglie, agli alberi che la fanno giardino in luogo di pietraia, ciascuno di noi diverrà allora sentinella di un dono che ci è stato prestato non per farne scempio con la nostra follia, ma per essere trasmesso ai nostri figli nella sua bellezza.
Tutto ciò con l’auspicio che le forze dell’ordine preposte e le istituzioni (Regione, Province e Comuni, ognuno per le proprie competenze) dedichino un po’ più di attenzione al problema.
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